Qualche considerazione
Negli ultimi decenni c’è stata una potenziale tendenza a globalizzare tutto, compreso il gusto. Molti produttori dei nuovi Paesi vinicoli ( Stati Uniti, Australia, Sudafrica, Cile, Argentina), hanno immesso sul mercato mondiale vini (di indubbie qualità) prodotti con vitigni ”internazionali”, spesso affinati in barrique, che, per forza di cose, non esprimono alcunché di personale o di originalità derivante dal territorio, semplicemente riproponendo ciò che uno stato come la Francia fa da sempre o quasi.
Si tende a dare un maggior valore al risultato economico/commerciale che alla salvaguardia d’identità di un territorio.
Purtroppo anche diversi nostri grandi o piccoli produttori hanno dovuto fare i conti con questa realtà mondiale, adeguando parzialmente le loro produzioni e cedendo, per ragioni di bottega, alla moda imperante.
I VITIGNI AUTOCTONI
PROBLEMATICHE
Etimologicamente la parola deriva dal greco autókhthon = della sua stessa terra ed il termine, in origine, stava ad indicare quelle popolazioni che, stanziate da tempo immemorabile in una località, si ritenevano nate dalla terra stessa.
Più in la nel tempo, questo termine è stato usato anche in biologia, sia animale che vegetale, per riferirsi a quegli esseri viventi esistenti in un determinato territorio da sempre, al punto da averne perso le origini storiche.
Focalizzando questo termine, vengono definiti vitigni autoctoni, quei vitigni storici o protostorici esistenti e coltivati su un territorio da tanto tempo ed ormai entrati a far parte del patrimonio della cultura locale.
Trascurare o dimenticare o lasciar scomparire questi vitigni, in nome della convenienza economica, delle richieste del mercato, della moda imperante, della omologazione del gusto, significa rinunciare ad un mondo di sapori eterogenei e nel contempo fare un affronto alla propria storia ed alle proprie radici.
Anche i produttori italiani di vino si erano lasciati trascinare, potenzialmente per poter competere sui mercati interni ed internazionali, verso una produzione di vini, che assomigliavano sempre di più al gusto internazionale.
Sono stati nel tempo abbandonati i vitigni locali per riconvertire i vigneti impiantando soprattutto uve “internazionali” che trovavano maggior riscontro sul mercato e di conseguenza al palato.
Anche le tecniche colturali e di allevamento furono cambiate infittendo i sesti di impianto, usando sistemi di allevamento e di potatura che potessero garantire basse rese per pianta e per ettaro a favore di un netto miglioramento della qualità. E ciò fu un bene!!
Ed ecco così apparire vini di grande corpo, con ampi e persistenti profumi di frutta rossa, di confetture, di profumi terziari, morbidoni e ruffiani, piacevoli ma, ahimè, quasi sempre parenti stretti l’uno all’altro, molto spesso appesantiti dai profumi del legno usato senza alcuna parsimonia al punto da far sospettare anche un sapiente, ma non sempre onesto, uso ed abuso delle cosiddette tecniche di cantina.
Passata la sbornia dei Merlot, dei Cabernet, degli uvaggi stile bordolese, degli Chardonnay, tutti conditi con una buona dose di barrique, le cronache e gli scrittori specializzati registrano e segnalano un cambiamento di tendenza sia nelle vigne che nelle cantine italiane.
Facendo qualche passo indietro alcuni vignaioli, per fortuna in tutta Italia, hanno ricominciato a pensare in termini di “autoctonia”, supportati anche dal parere di eminenti studiosi e ricercatori.
Hanno, cioè, cominciato a riscoprire ed a ricercare quei vitigni che andavano sparendo e che costituivano, come abbiamo già detto, un patrimonio della cultura enologica locale.
Lo scopo è quello di riproporre vini capaci di esprimere personalità spiccata e precise caratteristiche territoriali. La tecnologia moderna è in grado di affiancare e supportare questa nuova tendenza verso la riscoperta di questi “nuovi-vecchi vini”. Il consumatore potrà, in definitiva, scoprire e gustare prodotti pieni di aromi e di sapori nuovi o dimenticati.
Nessun altro Paese al mondo può rivaleggiare con il nostro nel campo della “varietà enologica di qualità” a conferma di quella caratteristica anarchia, tutta italiana, fatta di localismo, di individualismo, di edonismo gastronomico, di tendenza alla diversità, di scarsa capacità di omologazione, di naturale propensione verso il bello ed il buono in tutte le sue forme.
Viviamo in quella terra che gli antichi avevano chiamato “Enotria tellus”, ossia Terra da vino, ovvero Italia.
Parlando di omologazione del gusto e della propensione a produrre vini di gusto internazionale non intendo certo dire che la produzione di vini provenienti da uve autoctone, espressione tipica di un territorio, fosse stata abbandonata.
Chi non sa che Nebbiolo vuol dire Piemonte; che Friulano, Picolit, Ribolla fanno pensare al Friuli? Volete un vino per il pesce? Ecco allora il Verdicchio che significa Marche. Un vino rosso corposo da accompagnare agli arrosti? Andate in Puglia e troverete il Negroamaro o il Primitivo. Magari, già che siete vicini, fate un salto in Calabria e scegliete il Gaglioppo, traghettando in Sicilia per cercare il Nero d’Avola. Se invece preferite le montagne pensate all’Alto Adige ed ai sui vigneti collinari pieni di Schiava, il Trentino con il Teroldego, il Marzemino, la Nosiola. Questi sono solo pochi esempi eclatanti di vitigni autoctoni di cui, per fortuna, è ancora ricca l’Italia.
Alcuni eminenti studiosi, alcune centri o scuole di sperimentazione e ricerca agricola, alcune organizzazioni operanti nel settore vitivinicolo, si sono eretti a difensori di questo patrimonio nazionale al fine di preservarlo come testimonianza storica ma, soprattutto, per convincere i produttori a credere a questi vitigni in grado di apportare nuova linfa al mercato, attraverso vini ricchi di personalità, di profumi particolari, di sapori sconosciuti ed in grado, anche, di abbinarsi in modo ammirevole alla grande varietà di piatti della cucina regionale italiana.
Nel campo della ricerca e della conservazione dei vigneti storici ed autoctoni trentini l’ Istituto Agrario di San Michele all’Adige è sempre stato all’avanguardia.
“Il grande patrimonio dei vitigni antichi ed autoctoni italiani si sta inesorabilmente erodendo con il risultato di perdere definitivamente anche quell’eccezionale patrimonio genetico che tutto il mondo ci invidia….
Questi portatori di geni unici ed irripetibili sono sempre più a rischio di estinzione e, pensando a tutto ciò, è nato il Comitato “Vinum Loci” il quale, oltre a creare un archivio dei vitigni di cui si ha ricordanza nei diversi territori italiani, vuole unire in questa crociata tutti coloro che sono interessati a salvaguardare questa ricchezza. Associazioni e università, organismi pubblici e aziende private, lavorando insieme, potranno trasformare queste silenti riserve di geni custodite in laboratori o disperse per le campagne italiane in un volano per far conoscere non solo gusti e profumi unici ma anche territori altrettanto eccezionali…
(Maurizio Tripani)
Dopo l’epidemia di fillossera di fine Ottocento e le devastazioni dovute alle vicende belliche successive, al momento della ricostruzione dei vigneti molte delle vecchie varietà furono abbandonate è sostituite da altre, ridotte di numero ma più redditizie, capaci di adattarsi a diversi ambienti e perciò propagatesi sia su scala nazionale che mondiale.
La conseguenza ovvia è stata la scomparsa di prodotti fra loro diversi con il conseguente appiattimento e omologazione del gusto.
Per fortuna negli ultimi anni è andata crescendo la sensibilità verso i temi della biodiversità, che riguardano non solo il mondo della viticoltura, ma anche quello delle altre specie vegetali ed animali.
É noto che i vecchi vitigni hanno la peculiarità di essere fortemente eterogenei per caratteristiche genetiche e per adattabilità territoriale.
Il modo peggiore per conservare questi vitigni con tutta la loro personalità intatta, è quello di relegare 2 o 3 esemplari in una collezione presso qualche istituto agrario o di ricerca, costringendoli ad esprimere la loro variabilità in modo estremamente ridotto. Bisogna, però, anche dire che, se oggi siamo in grado di ridare slancio e vita al settore degli antichi vitigni storici locali, lo si deve soprattutto all’opera di conservazione della specie benemeritamente portata avanti dai ricercatori degli Istituti agrari, primo fra tutti quello di S. Michele.
La figura del “viticultore custode”, ideata da Attilio Scienza, ha l’obiettivo di far rivivere nei vigneti un numero di piante sufficiente (500-1.000-2.000) per mantenere tutta la variabilità insita nel patrimonio genetico di un “vitigno-reliquia”.
Questo consentirà ai ricercatori di avere a disposizione anche una massa di legno e di gemme sufficiente per impiantare nuovi vigneti e una quantità di uva che permetta di riscoprire come vinificarla nel modo migliore.
È anche auspicabile che, in un prossimo futuro, i vitigni antichi locali possano entrare a far parte del normale circuito produttivo, sia come prodotto tipico, sia come vitigni complementari da utilizzare nella produzione di vini a Denominazione di Origine.
“…In Italia attualmente dieci vitigni coprono il 50% della superficie coltivata a vigneto. “
Inoltre:
“…Dei 1.500 vitigni autoctoni che si stimano essere presenti e conosciuti, soltanto 350 sono catalogati per essere coltivati.”
“…Non dobbiamo mirare a creare una sorta di zoo dove esporre i vitigni in via di estinzione, ma a farli ritornare in produzione, trovando aziende disponibili a coltivarli ed a consentire una verifica della qualità.”
“Chiamare autoctoni quelli che sono i vini del territorio è in fondo un errore. Un vitigno locale non sempre è autoctono, perché tale è invece quello che viene addomesticato da viti nate in quel determinato territorio. Pertanto sarebbe meglio parlare di vitigni locali, minori, antichi, autoctoni, domestici ed indigeni.
I vitigni minori non sempre sono antichi, perché prevale il concetto di estensione della superficie di coltivazione, così come una varietà antica può essere tale ma non necessariamente essere locale.
È importante partire dalle origini di una varietà, distinguendo tra quelle oggetto di circolazione varietale più o meno antica (quelli cioè che già esistevano ai tempi dei Greci, dei Fenici oppure, più recentemente, ai tempi della dominazione spagnola e dell’Impero asburgico), da quelle di cosiddetta “addomesticazione arcaica” (frutto di selezione delle viti selvatiche avvenuta addirittura in epoca neolitica) che, in definitiva, sarebbero le uniche a potersi fregiare della dizione di autoctone. Esistono poi anche le varietà modificatesi nel tempo attraverso la naturale selezione genica.
Per terminare, il prof. Scienza si chiede: “… qual è il tempo necessario perché un vitigno possa essere considerato autoctono? Se si segue un criterio temporale, non si può escludere che anche un Cabernet possa diventare autoctono, in un determinato territorio, dopo un congruo numero di decenni. Allora, in questo caso, sarebbe meglio parlare di vitigni antichi piuttosto che di vitigni autoctoni.”
(Prof. Attilio Scienza)
Come si vede, l’argomento è composito, complesso e le opinioni tra sostenitori dell’autoctono o dell’internazionale sono ancora distanti anche se non inconciliabili. La tendenza attuale va nella direzione del sostegno alla diversità ed all’originalità. Speriamo che non sia solo un moda temporanea od un interesse solo mediatico.